martes, 28 de diciembre de 2010

L’ORO NELLA LITURGIA CRISTIANA

IV Concilio di Toledo, 633: Mansi, X, 369s.
I metalli sono il simbolo dell’energia potenziale, della trasformazione e della trasmutazione. Essi permettono di gerarchizzare l’evoluzione, di fissare i gradi iniziatori alla scala individuale o collettiva. Così nella paleontologia le quattro età dell’umanità sono assimilate ai quattro metalli e corrispondono rispettivamente all’oro, all’argento, al bronzo e al ferro. Questa successione porta simbolicamente a una regressione spirituale, allontanando sempre di più l’uomo dalla divinità e avvicinandolo ai valori più materiali, bassi e impuri.
Sempre sul piano simbolico i metalli incarnano l’eternità, la permanenza, l’atemporalità. Rispetto al legno, i metalli evocano la solidità, ma anche la durezza. Creati dagli dèi, i metalli sono fra le realtà più nobili della terra. I fabbri, allo stesso tempo venerati e temuti, sono gli artigiani della pace ma anche della guerra, dell’amore e dell’odio.
L’oro è al vertice di queste caratteristiche simboliche.



1. La simbologia dell’oro
Simbolo di purezza-perfezione. Metallo raro, poiché è tratto dalla terra attraverso un procedimento di lunga ricerca e di faticosa e raffinata purificazione, è il simbolo dello sforzo per raggiungere l’ultima e intima verità delle cose e poi della perfezione estetica e morale. A causa della sua estrazione attraverso il fuoco nel crogiuolo, ne simboleggia la funzione purificatoria in vista di un risanamento dalla corruzione.
Nell’alchimia è considerato l’anima della materia; anzi ogni elemento materiale, specialmente ogni metallo, avrebbe il suo desiderio e il suo fine nell’essere trasmutato in oro. Idealmente si potrebbe desiderare che nell’evoluzione dell’universo tutto diventasse oro, modello massimo di esistenza.
La storia umana, nella mitologia e anche nelle religioni, «corrotta» nel suo dipanarsi nel tempo, è racchiusa fra due «età dell’oro»: una all’origine, immaginata come «paradiso delle delizie», dove vige la perfetta felicità; una alla fine, nella quale, dopo le «cadute» dell’umanità nel corso della storia, si ritorna al «paradiso» come premio finale, nel quale si può godere ogni benessere e felicità.
Simbolo di eternità-regalità-divinità. A causa della sua inossidabilità, della sua consistenza e durezza, è simbolo di resistenza a ogni aggressione, permanendo nel tempo nella sue qualità a tempo indeterminato, e dunque dell’incorruttibilità morale. Anche per questa ragione, è simbolo di ciò che è grande e infinito, cioè delle regalità umane divinizzate nelle teocrazie e addirittura delle stesse divinità.
A causa della sua durezza, è indice di forza e di vittoria, e, a causa della sua rarità e dunque pregevolezza, è simbolo di ricchezza e di potere.
Simbolo solare. A causa del suo inalterabile splendore richiama la simbologia del sole, come luce, calore, vita, benessere. A causa della sua lucentezza, diventa simbolo di illuminazione interiore, della conoscenza intellettuale e dell’esperienza spirituale.
Nella religione cristiana, nella quale il simbolismo solare ha un chiaro riferimento a Gesù Cristo, Sole che sorge dall’Oriente, il 25 dicembre, festa del Sol invictus, l’oro diventa il metallo simbolico più diffuso e pregnante in tutte le arti liturgiche.

2. Gli oggetti liturgici[1]
«Il Signore parlò a Mosè e gli disse: “Vedi, ho chiamato per nome Besalèl, figlio di Urì, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro”» (Es 31,1-5; cf. Es 35,30-33).
Come appare da questo testo, la Sacra Scrittura fa risalire allo spirito di Dio la genialità dell’artista e dell’artigiano, specialmente quando essi dedicano la loro preziosa attività al culto del Signore, utilizzando i doni della natura, come i metalli, le pietre e i legni. L’arte liturgica infatti è espressione della signoria di Dio su tutte le cose belle della creazione e insieme della genialità amorosa dell’uomo che gli offre la sua riconoscenza e la sua lode.
Non c’è da stupirsi pertanto se i cristiani d’ogni epoca, anche quelli che sono vissuti in povertà per necessità (come le persone d’umile condizione), o per virtù (come i monaci), hanno ornato di bellezza e di preziosità i luoghi di culto e gli oggetti con i quali hanno celebrato i misteri della salvezza, soprattutto il sacramento dell’eucaristia. Insieme al culto verso il Signore si è ampiamente espanso e diffuso nel corso dei secoli il culto verso Maria e i santi, epifanie di Cristo morto e risorto nelle varie situazioni della storia, e testimoni della santità effusa dallo Spirito Santo nella Chiesa.
– Arte iconografica. La prima attenzione va rivolta all’uso dell’oro nell’arte iconografica. È ampiamente noto che l’uso dei colori nei mosaici e nelle icone antico-medioevali, sia orientali (bizantine, greche, slave e russe) che occidentali (specie nel Senese e nel Veneziano) ha sempre avuto uno specifico valore simbolico; l’oro ha sempre simboleggiato la divinità, sia nella rappresentazione di Gesù Cristo in quanto Dio, sia in quella di Maria e dei santi, in quanto partecipi della sua divinità nella gloria celeste. È pertanto molto usato negli sfondi delle icone, nelle vesti dei personaggi, nei nimbi e nelle aureole attorno al loro capo.
Oggetti liturgici. La nostra attenzione si rivolte più ampiamente agli oggetti liturgici, come i paliotti d’altare, le croci (astile, processionale, da altare) e i candelabri, i calici, le patene e le pissidi, i reliquiari dei santi e gli ostensori del Santissimo Sacramento, i turiboli e le navicelle per l’incensazione, le carte-gloria e le ampolline per la messa, le paci per il bacio, le coperte degli evangeliari.
Questi oggetti hanno ovviamente un carattere funzionale, in quanto sono necessari o utili al corretto e dignitoso svolgimento dei riti sacri; ma nel corso del tempi si sono ampiamente arricchiti di significati simbolici, specialmente nell’epoca gotica e in quella barocca.
–  L’altare. L’oggetto principale di riferimento è quasi sempre l’altare, l’oggetto-monumento più importante della liturgia cristiana, collocato al centro d’uno spazio-luogo dove Cristo, sommo sacerdote e vittima, si rende presente per associare intimamente a sé la comunità radunata il «giorno del Signore» e per offrirsi con essa al Padre celeste in un infinito canto di riconoscenza.
L’altare, ligneo o di pietra, fu da sempre coperto da una palla o pallium (stoffa), una specie di tovaglia che scendeva tutt’intorno fino alla base; poi si arricchì il lato sul davanti con un paliotto (pallium altaris, antependium), quasi sempre di forma rettangolare, costituito da un tessuto artisticamente ricamato in modo raffinato, o da una pala preziosa di metalli e di gemme. Particolarmente preziosi nella storia sono, ad esempio, il paliotto di San Marco a Venezia e quello di Sant’Ambrogio a Milano. Il primo è stato realizzato nell’alto Medioevo in lastra d’argento sbalzato e dorato su anima di legno. È costituito da una doppia serie di archi gotici tribolati inscritti, che poggiano su capitelli a petali di colonne scanalato con base liscia. Le figure originali sono d’una bella plasticità con un’insistenza particolare sulle ritmiche linearità delle curve armoniose dei panneggi e i volti espressivi si ispirano a prototipi certamente bizantini
[2].
La croce. In riferimento all’altare si trova sempre la croce, primariamente nella sua fisionomia di croce astile e processionale, in quanto, collocata alla cima di un’asta, si usava per aprire la processione di ingresso nelle celebrazioni per poi venire issata su apposito supporto a fianco della mensa[3]; oppure la croce poteva essere da altare (senza asta), adatta per essere collocata in modo fisso sull’altare stesso. La croce astile-processionale si diffuse nei secoli XIV e XV; da oltre due secoli prima si era affermato l’uso di riprodurvi l’immagine del Crocifisso; ma si trattava quasi sempre di una croce double-face, per cui nel retro si raffiguravano anche immagini di Maria o di profeti e di santi patroni. Spesso all’estremità dei bracci apparivano i quattro evangelisti e ai due lati della croce erano collocati Maria e Giovanni, il discepolo che Gesù amava[4]. Molto spesso queste croci sono in metallo fuso; ma sono numerose anche quelle in lamina d’argento o rame quasi sempre dorati, fissata su supporto ligneo.
Oggetti per la celebrazione dell’eucaristia. Gli oggetti, poi, che più hanno attirato le cura devota dei chierici e degli artisti sono stati quelli necessari per la celebrazione eucaristica, cioè la patena (piatto) per l’ostia grande del presbitero presidente, la pisside (scatola di bosso), recipiente a forma di ampio calice, per le ostie più piccole dei fedeli e il calice per il vino. La consapevolezza di fede che questi oggetti erano destinati a contenere il pane e il vino trasformati nel corpo e sangue del Signore ha sollecitato i credenti a usare per essi i materiali più preziosi (argento e oro), spesso adornati di pietre preziose e di smalti, e ad affidarne la realizzazione agli artisti e artigiani più qualificati ed esperti; e molti di loro vi hanno profuso grande intelligenza e abilità per ottenere dei manufatti di alta qualità artistica, in sintonia anche con gli stili del proprio tempo. Tutti e tre questi oggetti, per disposizione ecclesiastica, dovevano essere almeno dorati in quelle parti in cui vengono a contatto diretto col corpo e il sangue di Cristo, come il lato diritto della patena e le coppe del calice e della pisside.
Il calice. Quanto alla forma si può ritenere che i calici antichi somigliassero piuttosto a una tazza o anfora, con coppa molto larga e profonda, con ai lati, a volte, due anse che ne facilitavano il maneggio. Nel Medioevo la forma si adeguò agli stili del romanico e del gotico, con una ricca ornamentazione di ceselli, di sbalzi e l’incastonatura di pietre preziose. Con l’avvento e il trionfo del barocco la coppa si piegò a campana rovesciata col labbro sporgente, si allungò lo stelo, e il calice si arricchì di volute, di anelli e di statuine.
«Nella seconda metà del XVII e all’inizio del XVIII secolo il modello si va lentamente e progressivamente trasformando. Le proporzioni tra il piede, il fusto e la coppa si evolvono con una preponderanza sempre più accentuata per il piede, che si arricchisce di cornici e di volute aggettanti e talvolta così complesse da simulare le cornici in stucco che ornano pareti e soffitti di architetture civili e religiose»[5].
La patena. In coppia con il calice si sviluppa anche l’arte della patena, piattino obbligatoriamente dorato di metallo, quasi sempre d’argento, leggermente concavo; sul lato superiore veniva poggiata l’ostia grande del prete; sul retro era spesso decorata a cesello con rappresentazione di scene sacre o con figurazioni simboliche.
La pisside. All’origine la pisside per alcuni secoli fu un cestello (canistrum) di vimini adatto a contenere il pane; poi divenne una teca di forma cilindrica senza piede, di bosso o d’avorio; più tardi fu costruita in rame con smalti a colori, sormontata dopo il Mille, da un coperchietto conico spesso elaborato; dal XIV secolo in poi fu costruita con il piede, a somiglianza dei calici, generalmente in argento dorato, almeno nella coppa.
Reliquiari e ostensori. Due altri importanti oggetti liturgici, molto decorati e preziosi sono i reliquiari e gli ostensori, interdipendenti fra di loro per storia, stili e funzioni, in quanto entrambi finalizzati alla funzione dell’esposizione delle reliquie dei martiri e santi e soprattutto del Santissimo Sacramento per l’adorazione e la processione eucaristica.
Particolarmente interessante è la storia del reliquiario, vaso di varia configurazione formale, nel quale attraverso i secoli la Chiesa ha custodito alcuni particolari oggetti di culto, fra cui in primo luogo le reliquie della santa croce, dei martiri e dei santi. La forma del reliquiario si è variamente evoluta nel corso dei secoli: dalla primitiva forma di cofanetto, o, più solennemente, di un’urna spesso collocata nelle cripte sotterranee, si passò, in epoca romanica, a forme simili a un piccolo edificio rettangolare, coperto da due spioventi, molto ricco e ornato, e, in epoca gotica, a una forma di cattedrale con pinnacoli e portali, dove le statuine e i dettagli decorativi raggiungono una finezza incredibile. Più tardi, nei secoli XV-XVI prese la forma di croce, similmente agli ostensori, o quella di statua del santo, sul petto della quale si applicava un piccolo cilindro di cristallo contenente la reliquia, o anche quella a somiglianza del membro del corpo ivi custodito, come, ad esempio, il mezzo busto, la testa, il braccio, o il piede.
La storia dell’ostensorio cominciò molto più tardi, nella prima metà del secolo XIV, da quando cioè si introdusse la prassi di esporre, svelata alla vista dei fedeli, l’ostia consacrata. Già dai secoli precedenti c’era stata l’abitudine dei fedeli di adorare, durante la messa, l’ostia innalzata dal prete dopo la consacrazione; dal secolo XIII poi si era diffusa la festa liturgica del Corpus Domini (1264) con la relativa processione del Santissimo Sacramento. Per questa devozione era necessario un contenitore adatto a rendere visibile l’ostia. Probabilmente dapprima servì la stessa pisside chiusa (capsa) coperta da un drappo; ma ben presto si sentì la necessità di costruire un vaso apposito, nei quali l’ostia, collocata nella presa della lunetta, diventasse chiaramente visibile a tutti i fedeli. I più antichi e belli sono quelli in stile gotico, foggiati a torre poligonale cuspidata con finestre e vetri colorati, a imitazione di una cattedrale; altri ebbero la forma di croce con al centro il cristallo eucaristico; altri ancora erano costituiti da statuette di Nostra Signora col Bambino, o di Cristo, sul petto o sulla fronte del quale si collocava, entro un cristallo, l’ostia; altri infine, dopo il secolo XVI, furono costruiti a mo’ di sole raggiante
[6]. In tale forma sono arrivati fino a noi, tranne che nel rito ambrosiano, dove prevale il tipo a tempietto. In più periodi ci fu una specie di contaminazione formale reciproca fra ostensorio e reliquiario[7].
Turibolo, carte-gloria ed Evangeliari. Altri importanti oggetti liturgici sono il turibolo con la sua navicella, le carte-gloria, le paci e le copertine degli Evangeliari.
Il turibolo, con la sua navicella, è un oggetto di culto che ha molto interessato l’arte dell’argenteria. Nei primi secoli la Chiesa si astenne dall’uso rituale antichissimo dell’incensazione, perché troppo diffuso in ambito pagano, anche se nelle famiglie cristiane l’uso dell’incenso era diffuso per aromatizzare gli ambienti. È entrato nella liturgia per incensare il Santissimo Sacramento per l’adorazione e, ancora prima, per onorare il libro dei Vangeli; è usato anche per l’incensazione del pane e del vino nella messa, nonché dell’altare, dei ministri sacri, dei fedeli, e della bara del defunto nella messa di esequie. I primi incensieri (thimiamaterium, incensorium) ebbero forma varia: alcuni erano fissi poggianti sul pavimento, altri si appendevano stabilmente al ciborio (tempietto sopra l’altare), altri erano mobili, costruiti a mo’ di vasetti decorati e abbelliti, portati a mano mediante un manico, oppure, più comunemente appesi a catenelle, secondo l’uso pervenuto fino a noi. La navicella è il suo accessorio necessario: si tratta di un piccolo contenitore per l’incenso, foggiato in forma di piccola nave, chiuso da un coperchio. Come il calice, l’ostensorio e il reliquiario, dal romanico al barocco, la forma del turibolo e della sua navicella è stata caratterizzata dai vari stili storici.
Le carte-gloria sono tre tabelle con determinate preghiere fisse, desunte dal Messale, che vengono disposte sull’altare a fronte del celebrante, come aiuto mnemonico. Sono sempre state oggetto di attenzione da parte degli artisti per quanto riguarda la forma delle loro cornici (particolarmente fantasiose quelle barocche), in legno lavorato, o in metallo fuso, o in lamina d’argento (anche dorato) lavorata a sbalzo e cesello, fissata su anima lignea.
Le paci sono oggetti di non grandi dimensioni, che servivano per comunicare il bacio di pace, dopo l’Agnus Dei, alle autorità civili nelle messe solenni e anche ai dignitari ecclesiastici nelle messe basse celebrate alla loro presenza. Generalmente racchiudevano un’immagine del Signore, o della Madonna, o di un santo. Servivano anche per il bacio alla reliquia di un santo nella festa liturgica a lui dedicata. Sono costruite come un piccolo quadro, di forma molto varia (rotonda, ovale, quadrata, ecc.), sempre confezionate con materiali preziosi (come oro, argento, avorio, smalto) e artisticamente elaborate (pittura, scultura, cesello, incisione, intarsio).
Il libro sacro, che contiene i testi della Sacra Scrittura da proclamare nella liturgia (Evangeliari, Lezionari), o le preghiere della Chiesa per i sacramenti e la messa in particolare (Messali), è sempre stato trattato con molto rispetto, fino all’incensazione nel caso dell’Evangeliario. Le copertine di tali volumi sono state confezionate in pelle, o in legno ricoperto in lamina d’argento lavorato a sbalzo e/o a cesello, spesso dorato.

3. Le vesti[8]
Il vestito è una realtà (oggetto e modo) con la quale la persona umana si rapporta originariamente con lo spazio e con le sue condizioni ambientali (cf. il sinonimo abito, da abitare), si relaziona con gli altri (cf. habitus nel senso di abitudine, comportamento) e afferma la propria identità come valore personale e funzione sociale (cf. habitus nel senso di virtù).
A livello antropologico è dunque evidente che il vestito assolve ad almeno quattro funzioni:
– una funzione fisiologica (protegge dal caldo e dal freddo e dalle varie intemperie);
– una funzione morale, potremmo anche dire di pudore (modulando l’istintualità secondo la ragione e l’affettività) in modo che l’esteriorità sia intimizzata e dunque umanizzata;
– una funzione estetica di nobile esaltazione della corporeità umana, specialmente nei momenti di incontro sociale, primariamente nella festa;
– una funzione deputatoria, quando, a mo’ di divisa, connota il ruolo sociale di una persona.
La foggia del vestito è anche relazionata al sesso della persona e alla sua età, spesso anche alla sua condizione sociale, ed è anche funzionale alle varie attività lavorative. Nascono così varie tipologie di vesti:
– c’è la veste tagliata-cucita a misura e a forma del corpo, che ne esalta la bellezza delle forme e delle proporzioni;
– c’è la veste drappeggiata cadente, agganciata sulle spalle, che evidenzia il capo come realtà emergente della persona;
– c’è la veste avvolgente come un mantello.
Per queste ragioni l’abito si carica di molteplici valenze simboliche, diverse e specifiche secondo le aree culturali e l’evoluzione della civiltà dei popoli. I filati, i tessuti, i disegni e i colori sono in relazione innanzitutto alle materie prime disponibili (lana, lino, seta, canapa, cotone, ecc.), e poi alla tecnologia tessile, all’invenzione figurativa fantastico-simbolica dell’arte sartoria, e infine alle esigenze funzionali ed estetiche dei fruitori.
Data la forte intensità relazionale della ritualità sacra con il kosmos, con gli altri, con il divino, la ricerca della significatività simbolica, della funzionalità celebrativa, della bellezza e della preziosità dell’abito è sempre stata particolarmente curata proprio nel mondo della prassi liturgica un po’ in tutte le religioni. In questa logica è entrato l’uso di filati e lamine d’argento e d’oro per impreziosire i tessuti, sia per abbellirli con ricami.

3.1. Le vesti liturgiche
Le vesti liturgiche cristiane derivano dalle antiche vesti greco-romane. Nella celebrazione liturgica si usarono gli stessi abiti che le persone di condizione civile indossavano abitualmente nella vita d’ogni giorno. Questa identità di costume, civile e liturgico, fu praticata nella Chiesa per più secoli, anche dopo la pace costantiniana, fino a papa Gregorio Magno. Evidentemente gli abiti usati per la liturgia erano i migliori allora possibili, non solo per la lindezza, ma anche per i tessuti e la confezione: erano gli abiti della festa; distinti, non nella foggia, ma nella qualità, rispetto a quelli quotidiani, da lavoro.
Con l’introdursi dei costumi dei popoli barbari, comincia a delinearsi un notevole cambiamento nella moda comune, che condusse alla differenziazione sempre più netta delle vesti ecclesiastiche dalle civili. La tunica talare (lunga), detta alba, sottoveste comune, è a poco a poco sostituita da una tunica più corta, detta sagum; e la tradizionale penula, chiusa da ogni parte, viene sostituita da un mantello largo aperto sul davanti[9]. La Chiesa, che si proponeva di romanizzare i barbari, insistette energicamente perché i chierici mantenessero le vesti antiche. Questa prassi di conservare le vesti romane per la celebrazione portò un po’ alla volta a un processo di sacralizzazione rituale dell’abito liturgico, sia perché l’abito romano divenne sempre più inusuale in ambito civile, sia perché – di conseguenza – si caratterizzò sempre di più come abito sacro.
In questo processo ebbe notevole influenza l’universale comportamento umano, ampiamente studiato in antropologia culturale e comune a tutte le religioni, incline a distinguere e a separare il sacro dal profano, il quotidiano dal festivo, il terrestre dal celeste. Un’altra spinta venne dalla prassi attestata nell’Antico Testamento, secondo la quale era previsto un vestiario rituale particolarmente accurato, ricco e solenne. Un ulteriore sviluppo del vestiario liturgico si ebbe all’epoca dei carolingi, quando le vesti proprie dei singoli ordini ecclesiastici vennero definitivamente fissate nella competenza e nella forma che conservano fino ai nostri giorni. Le ultime fasi nello sviluppo del costume liturgico si compiono nel secolo XII con la fissazione del canone dei colori, con un adeguamento delle vesti tradizionali a esigenze di maggiore praticità, e soprattutto con la ricerca di una sempre maggiore ricchezza del tessuto (velluto, damasco, broccato) e della preziosità del ricamo fino a parlare di una pittura ad ago.
Nell’abbigliamento romano si distinguevano la veste inferiore da quella superiore. La veste inferiore, oltre ovviamente alle intime vestes mutandes, era costituita dalla tunica, una larga veste a forma di camicia, piuttosto corta e senza maniche, allacciata con due fibbie sulle spalle; dal secolo IV si trova anche fornita di maniche (manicata) e lunga fino ai talloni (talaris). Era di filo, bianca o di color chiaro, donde il nome più tardivo di alba, a volte anche ornata di due galloni purpurei (clavi), più o meno lunghi secondo la dignità della persona, scendenti paralleli sul davanti e sul dorso. In casa si portava sciolta; in pubblico stretta alla vita con una cintura e rialzata sul davanti per facilitare la deambulazione.
La veste superiore comprendeva fogge diverse, secondo i tempi e le persone. La più solenne era la toga, abito amplissimo di forma circolare o ellittica che si avvolgeva sulla tunica; non tanto comoda, era riservata alle grandi occasioni. Più comunemente si usavano la dalmatica, la poenula e il pallio. La dalmatica era una specie di altra tunica sovrapposta a quella inferiore, ma più corta, discinta, e fornita di maniche larghe; era usata come veste da passeggio. La poenula era un vestito di lana pesante, di forma rotonda, chiuso da ogni parte e fornito di cappuccio (cucullus); per l’uso delle mani, bisognava alzarne i lembi esterni e caricarli sulle braccia o sulle spalle; fu usata dapprima nella cattiva stagione e nei viaggi, poi divenne abito di lusso e, sulla fine del IV secolo, un abito senatoriale. Il pallio, d’origine greca, consisteva in un panno oblungo di lana, tre volte più lungo che largo, che si metteva gettandone un terzo sulla spalla sinistra, così che una parte scendesse in avanti sul braccio sinistro; gli altri due terzi erano tirati dietro le spalle, raccolti dalla mano destra e di nuovo gettati davanti sulla spalla sinistra; ridotto più tardi ad una specie di sciarpa, divenne un accessorio ornamentale distintivo degli officiales.

3.2. Le sopravvesti liturgiche
La càsula-pianeta. La casula (piccola casa) derivò dall’antica poenula romana[10]; detta anche pianeta, nel Medioevo era una vesta comune a tutti i chierici, dalle forme larghe e maestose. La forma ampia della casula non facilitava i movimenti delle braccia, per cui, un po’ alla volta fu confezionata in forme sempre più ridotte, sia accorciandola, sia restringendola, fino alla moderna forma della pianeta. Fu inoltre confezionata in varie maniere; si usarono tuttavia sempre tessuti di pregio (seta, damasco, velluto, broccato) e fu spesso decorata di preziosi ricami, con uso anche dell’oro e delle perle. Ruperto ne descrive così il significato simbolico:
«Casula magni sacerdotis nostri Christi vestimentum. Quod est illud vestimentum? Sancta Ecclesia catholica! Casula ergo vestimentum Christi, quod est Ecclesia significat. Est autem integra et undique clausa, ut unitatem et integritatem verae fidei demonstret»[11].
Il testo sembra far riferimento alla tunica inconsutile di Gesù, sulla quale i soldati gettano la sorte, dopo la sua crocifissione (cf. Gv 19,23-24).
Poiché è l’abito indossato sopra tutti gli altri, ha assunto dal Medioevo anche il simbolismo della carità, virtù che ricopre una moltitudine di peccati; il vescovo infatti la impone al presbitero neo-ordinato dicendo: «Accipe vestem sacerdotalem, per quam charitas intelligitur»; e poiché la si pone sulle spalle, fu pure considerata come simbolo del giogo del Signore: il prete indossandola è invitato a pregare così:
«Domine, qui dixisti: Jugum meum suave est et onus meum leve; fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam».
La dalmatica e la tunicella. La dalmatica dal III secolo divenne nell’uso romano la sopravveste delle persone più ragguardevoli, e come tale si mantenne anche nell’uso ecclesiastico. Già dal IV secolo divenne un abito d’onore anche per i diaconi. Conservò fino a noi la sua forma primitiva, anche se dopo il Mille fu accorciata, dal secolo XII fu aperta sui fianchi e dal secolo XVI vennero aperte anche le maniche.
La tunicella (subtile, stricta) è un’imitazione della dalmatica e fu usata come veste pontificale e più tardi come abito del suddiacono (ordine ora abolito). Quanto alla forma subì le stesse vicissitudini della dalmatica.
Furono sempre considerate vesti di gioia e per la festa; il vescovo imponendole ai ministri corrispettivi diceva:
«Induat te Dominus indumento salutis et vestimento laetitiae; Tunica jucunditatis et indumento laetitiae induat te Dominus».
Come per la casula-pianeta, la dalmatica e la tunicella erano spesso arricchite nel tessuto e nel ricamo dall’uso di fili e/o lamine d’argento e d’oro.
Il piviale. Il piviale (pluvialis), detto anche cappa, trae la sua origine probabilmente dalla lacerna o byrrus, allungati fin sotto le ginocchia; secondo altri storici deriva da una trasformazione della poenula, provvista di cappuccio per la pioggia, aperta sul davanti per comodità. Mentre la casula manteneva nella messa la sua forma tradizionale, il piviale-cappa fu d’uso comune per le altre celebrazioni minori, come la celebrazione delle Lodi e dei Vespri, e nelle processioni e nelle consacrazioni. Un po’ alla volta si abbandonò l’uso del cappuccio (cucullus) perché inutile.
La fibula (formale, pectorale), che teneva allacciati sul petto i due capi del piviale, assunse presto un’importanza ornamentale caratteristica sotto la forma di placca larga, ovale o rettangolare, d’oro o d’argento, spesso arricchita di smalti, pietre preziose e artistiche cesellature.

3.3. Le insegne liturgiche
Anche nelle insegne liturgiche è frequente l’uso di metalli preziosi e di pietre dure. Per insegne liturgiche si intendono il manipolo, la stola, il pallio; poi anche la mitria, il pastorale, l’anello, la croce pettorale. Probabilmente l’uso delle insegne è legato alle onorificenze che ai dignitari ecclesiastici furono concesse già dall’epoca costantiniana. Tuttavia, comunque siano sorti i distintivi onorifici dei vescovi, va rilevato come alcuni di essi, solo in un processo lungo di tempo, acquisirono un impiego e un significato sacro. In genere, l’adozione delle insegne comincia nel secolo VIII con l’epoca carolingia.
– L’anello, che dapprima fu portato per autenticare gli atti giuridico-amministrativi, dal secolo X viene considerato come simbolo dell’unione tra il vescovo e la propria Chiesa.
– Il pallio, sciarpa d’onore e di giurisdizione dei consoli e dei questori, viene più tardi concesso dal papa a titolo proprio quale segno di partecipazione all’autorità pastorale pontificia.
– Il phrygium, da copricapo di cerimonia degli alti funzionari statali, diventa la mitria per i vescovi e poi la tiara per il papa.
– Il manipolo (manipulus, mappula, brachiale) è una imitazione di un pannolino a foggia di fazzoletto che presso i romani, i consoli e le alte cariche dello stato portavano, come oggetto di etichetta, in certi costumi di gala; lo si teneva fra le mani o si attaccava alle vesti. Assegnato dapprima ai diaconi nel servizio liturgico da papa Silvestro († 314), era confezionato con un tessuto di pregio. Divenne poi progressivamente insegna anche dei presbiteri e si diffuse universalmente. Da panno sciolto, portato dalla mano sinistra, dal secolo XIV, divenne ripiegato su se stesso (manipolo = fascetto) in forma si striscia o fascia, stretta e allungata, con ornamenti di frange alle estremità e ornato con trame d’oro e ricami.
– L’origine e lo sviluppo della stola non è stato ancora decifrato con chiarezza. In origine l’orarium, o anche mappa e sudarium, nell’uso civile era un panno fino, proprio delle persone distinte, destinato a tergere il volto o ad avvilupparsi attorno al collo come un’ampia cravatta; in Oriente un panno simile si chiamava othone (linteum), ed era una specie di velo di filo simile a un nostro asciugamano. Il termine stola, che indicava l’ampia veste delle matrone, compare con il significato liturgico dell’orarium in Gallia verso la fine del secolo VII; l’uso del termine stola divenne definitivo dopo il secolo XII. A questo curioso scambio di parola contribuì forse l’aver dimenticato nei paesi nordici il senso originario di orarium (da os) per derivarlo da orare nel senso di parlare-predicare, facendone dunque un’insegna dei predicatori, dunque dei vescovi e dei presbiteri. Non sembra indifferente a tale metamorfosi il testo del Siracide:
«In medio ecclesiae aperiet [sapientia] os eius et adimplebit illum spiritu sapientiae et intellectus, et stola gloriae vestiet illum» (Sap 15,5).
Fu dapprima insegna del diacono portata sulla spalla sinistra:
«Unum igitur orarium levitam gestare in sinistro humero, propter quod orat, idest praedicat»[12].
Dal secolo XII i diaconi la portarono a tracolla e annodata sul fianco destro. Come insegna vescovile-presbiterale, era portata facendola girare attorno al collo, incrociata sul petto e fermata con il cingolo, sotto la casula o pianeta.
– Come insegna liturgica propria del papa, il pallio sembra attestato fin dai tempi di papa Marco († 336); nelle sue raffigurazioni più antiche ci si mostra in forma di sciarpa disposta sulle spalle con lo stesso andamento che aveva il pallio, che era un manto, come si può vedere sulla figura del vescovo Massimiliano a San Vitale in Ravenna: un lembo crocesegnato della striscia pende dinanzi dal lato sinistro, sale sulla spalla sinistra, gira intorno al collo e, passando sulla spalla destra, scende assai basso dinanzi al petto, per tornare infine sulla spalla sinistra e ricadere dietro la schiena. Dal secolo XI viene semplificato e ridotto a una forma circolare chiusa, con i due capi pendenti esattamente sul mezzo del petto e del dorso. Fu sempre arricchito di ornamentazioni con il simbolo della croce. Dal secolo VII divenne segno distintivo di giurisdizione del papa e degli arcivescovi. L’imposizione del pallio al papa viene fatta il giorno della sua incoronazione per le mani del cardinale arcidiacono.

3.4. I colori liturgici
La varietà dei colori nelle vesti sacre era già conosciuta dalla liturgia ebraica, con la differenza che, mentre i paramenti cristiani hanno ognuno un colore dominante, presso gli ebrei i colori liturgici dovevano essere usati insieme:
«Useranno oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso. Faranno l’efod con oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto, artisticamente lavorati» (Es 28,5-6).
Nei primi sette secoli dell’era cristiana gli abiti liturgici erano usati con la varietà dei colori allora in uso, con una prevalenza forse del colore bianco, colore naturale del lino, considerato dai romani come più adatto per i giorni di festa e le cerimonie di culto, quale simbolo della purezza rituale.
All’epoca dei carolingi si constata una grande varietà di colori, fino a otto: oro, bleu, bianco, verde, bruno, rosso, nero, porpora; ad essi si attribuivano varie valenze simboliche. Papa Innocenzo III († 1216) riconosce più tardi come liturgici solo cinque colori: bianco, rosso, verde, violetto e nero. Pio V († 1572)aggiunse il color rosa per la terza domenica di Avvento (Gaudete) e la quarta domenica di Quaresima (Laetare). Di particolare importanza fu il color oro, ottenuto con un uso abbondante del metallo pregiato, sia nel tessuto, come nei ricami. Liturgicamente, data la sua dignità, il color oro poteva sostituire nelle feste gli altri colori (il bianco, il rosso e il verde).

4. Vesti di gloria
La funzione primaria degli abiti liturgici sembra quella di aiutare anche visivamente i celebranti, ministri e fedeli, a proiettare la propria vita quotidiana oltre le apparenze sensibili, e a intessere una festosa relazione d’amore con il Cristo risorto, Agnello immolato e glorioso, Sposo della Gerusalemme celeste:
«E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2).
Si tratta, dunque, teologicamente di abiti nuziali della Sposa terrestre dell’Agnello: la nobiltà dei filati, la finezza dei tessuti, la ricchezza dei disegni e dei ricami, la preziosità dell’argento e dell’oro, tutto concorre a esprimere il senso della gioia personale e della festa comunionale nella Gerusalemme celeste. La quotidiana terrestre veste-di-sacco della conversione, della penitenza, della fatica e della sofferenza, sarà così trasformata nella veste-di-gloria del Signore risorto.




[1] Cf. G. Nonis, «Saggezza, intelligenza e scienza… per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame» (Es 35,30-33), in A.M. Spiazzi (ed.), Oreficeria sacra in Veneto (secoli VI-XV), Biblos, Cittadella (PD) 2004, pp. 11-14.
[2] Cf. W.D. Wixom, Paliotto di San Marco, in Il tesoro di San Marco, Olivetti, Milano 1986, p. 286.
[3] Preziosissima quella offerta al papa da Carlo Magno per l’incoronazione dell’800: «Quam almificus Pontifex in letania praecedere constituit, secundum petitionem ipsius piissimi imperatoris» (I. Duchesne [ed.], Liber Pontificalis, II, Paris 1955, p. 8).
[4] Cf. B. Bertoli, I tesori dell’oreficeria e la simbologia liturgica nelle chiese di Venezia, in I tesori della fede. Oreficeria e scultura nelle chiese di Venezia, Marsilio, Venezia 2000, p. 143.
[5] A.M. Spiazzi, Il seicento e il settecento, in I tesori della fede, cit., p. 137.
[6] Forse questo modello, diffusosi dopo il concilio di Trento, fu anticipato nella Disputa del Sacramento di Raffaello nella Stanza della Signatura per papa Giulio II Della Rovere fra gli anni 1509-1511. Il modello di ostensorio dipinto è un nuovo esemplare, che, ancora privo di raggiera, mostra l’eucaristia in tutto il suo splendore all’interno di una teca circolare posta su un sottile e prezioso fusto dorato.
[7] Cf. F. Faranda, I vasi sacri: liturgia e sviluppo iconografico, in Id., Argentieri e argenteria sacra in Romagna dal Medioevo al XVIII secolo, Luisè Editore, Rimini 1990, pp. 35-55.
[8] Cf. P. Nonis, Realtà e simbolo del tessuto a servizio della fede, in G. Cantelli (ed.), Magnificenza nell’arte tessile della Sicilia centro-meridonale, vol. 1, Maimone, Catania 2000, pp. 167-179.
[9] Cf. un esempio nel mosaico di San Vitale a Ravenna, sec. VI.
[10] Pseudo-germano di Parigi, Explic. Antiq. Lit. Gallic.: PL XLIII, 97, cit. in M. Righetti, Storia liturgica, I. Introduzione generale, Ancora, Milano 19643, p. 597.
[11] Ruperto di Deutz, De div. offic., I. 22: PL 170, 23 (cf. Hittorp, p. 862).

Virginio Sanson


Revista liturgica
n°6  nov/dic 2009

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