jueves, 23 de diciembre de 2010

TEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, ARTE E LITURGIA

Dopo la sofferta visione della liturgia viennese (vedi “Sconsigliato”) sembra più che mai opportuna una riflessione su ciò che “bello”, “degno” e “decoroso” devono – o dovrebbero – significare nella liturgia della Chiesa Cattolica. Pubblichiamo quindi l’intervento pronunciato da monsignor Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, in occasione della Giornata di studio sul tema “Maestà e bellezza nel Suo santuario. L’arte a servizio della liturgia” organizzato il 1° dicembre 2007 in Vaticano, tratto da fides.org. Nell’intervento Mons. Piacenza spazia dai fondamenti teologici all’arte nel culto riferita sia al Vecchio che al Nuovo Testamento, da considerazioni teologico – antropologiche al Magistero,  dalle immagini alla musica e alla lingua.  E, curiosamente, ritroviamo il tutto nella forma straordinaria del Rito Romano…
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano Secondo afferma che la Chiesaè stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente perché le cose appartenenti al culto sacro fossero veramente degne, decorose e belle, segni e simboli delle realtà soprannaturali, ed ha formato degli artisti”.1
Partendo da questa dichiarazione importante della Sacrosanctum Concilium vorrei presentare, in modo piuttosto essenziale, gli aspetti liturgici che incidono sull’arte. Anzitutto riconsideriamo ora i fondamenti teologici del rapporto fra liturgia e arte. Poi accenneremo a tre elementi particolari mediante i quali la liturgia incide sull’arte: le immagini sacre, la musica sacra e la lingua sacra.
 
1. Fondamenti teologici
Per la Chiesa, che ha ben presente l’“autonomia delle realtà terrene”, rettamente intesa2, l’arte assolve principalmente ad una funzione di culto. Esso è l’essenza del fenomeno religioso, il quale, se ha dimensioni personali ed intime, ha pure necessariamente espressioni comunitarie e pubbliche. Gli edifici sacri, le immagini, gli arredi, le suppellettili, i libri liturgici, gli stessi testi liturgici e il repertorio musicale, sono opere d’arte che nascono per essere poste a servizio del culto divino.
L’arte non è un elemento estrinseco alla Liturgia e neppure è puramente decorativo; essa è piuttosto parte integrante del culto, come mette in rilievo Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore”.3
 
1.1 Arte al servizio del culto divino nell’Antico TestamentoLo storico d’arte Timothy Verdon, riflettendo sul “genio artistico della liturgia”, osserva che “in quasi tutte le culture antiche, l’arte monumentale ha carattere religioso e specificamente cultuale. Viene prodotta cioè al servizio della liturgia, come ‘visibilità del mistero’. La liturgia poi – il complesso di riti con cui una civiltà esterna il suo rapporto con Dio – è in sé opera artistica e generatrice d’arte”. “In alcune culture”, Mons. Verdon continua, “l’estro creativo al servizio del culto è considerato addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme … è pensata in rapporto al sacro. Nell’Antico Testamento, per esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e ‘gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario’, vengono istruiti da Mosè in persona, perché facciano ‘ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato’ (Esodo 36,1)”.4
L’esodo nel deserto rappresentò per Israele l’esperienza fondante della sua formazione a popolo di Dio. Momenti significativi di questo itinerario sono non solo il passaggio del Mar Rosso, in cui Dio manifesta la sua potenza salvifica (cfr Esodo 14, 15 – 15, 21), o la proclamazione dell’Alleanza e la consegna del Decalogo a Mosé, come segno di predile¬zio¬ne di Israele (cfr Esodo 19, 1 – 20, 21), ma anche la costruzione ed erezione del santuario, con l’indicazione dei materiali da utilizzare e la descrizione minuziosa degli arredi e dei paramenti sacerdotali, che occupa ben sedici capitoli del libro dell’Esodo (cc. 25-31 e 35-40). È evidente che l’organizzazione del culto mediante le prescrizioni dei riti, comprensive delle indicazioni relative agli oggetti funzionali alla esecuzione di questi ultimi con precisione e splendore, è considerata nella Sacra Scrittura il mezzo più importante per realizzare l’incontro di Dio con il suo popolo.
In ciò certamente Israele, rispetto agli altri popoli con i quali era in contatto non ha portato nella forma del culto innovazioni decisive. Esso attingeva sostanzialmente al sentimento religioso universale che porta l’uomo a rivolgersi alla divinità offrendole i frutti migliori del proprio lavoro come ringraziamento e come invocazione; un sentimento riflesso nei sacrifici di Caino e di Abele descritti nella Genesi (4, 3-5). La novità assoluta del culto giudaico consisteva piuttosto nel fatto che esso fosse rivolto ad un unico Dio e che contenesse in sé i germi di una sua spiritualizzazione che, annunciata dai profeti (Ezechiele, Geremia, Michea), si sarebbe realizzata in Cristo.
 
1.2 Culto in spirito e verità nella Nuova AlleanzaDurante il Suo incontro con la donna di Samaria presso il pozzo di Giacobbe, Gesù dichiara che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Giovanni 4, 23).
Come spesso nel Vangelo secondo Giovanni, che i Padri della Chiesa hanno denominato “il Vangelo spirituale”, si possono cogliere alcuni sensi complementari.
In primo luogo, il culto cristiano è distinto dal culto dei samaritani e degli ebrei, perché esso è “in spirito”, cioè non è limitato ad un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani ed il tempio di Gerusalemme per gli ebrei. Questo non significa che, sotto il Vangelo, non ci debbano essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessun edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, anche solo per il fatto che quasi duemila anni della Traditio Ecclesiae parlano contro di esso. Il Signore non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; così nella profezia sulla distruzione del tempio, il Maestro divino non afferma per nulla che non si dovrebbe costruire mai più un’altra casa in onore di Dio, ma piuttosto che ci dovrebbero essere molte case. Questa verità ha trovato una bella espressione in un sermone del cardinale John Henry Newman: “La gloria del Vangelo non è l’abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza vivente ed efficace per la grazia di Cristo”.5
In secondo luogo, tornando al discorso di Gesù, il culto cristiano è “in verità”, perché non è compromesso dagli errori di idolatria e di sincretismo, che hanno contagiato i samaritani. C’è una regola antica, risalente al quinto secolo, che è citata spesso nella formula: lex orandi, lex credendi. Dovremmo essere prudenti circa l’interpretazione di questo principio, dato che la fede non viene dalla liturgia, piuttosto la celebrazione dei misteri della fede presuppone l’annuncio del Vangelo. Ciò nonostante, il culto pubblico è espressione e testimonianza della fede infallibile della Chiesa e dovrebbe aiutare a comprendere in senso profondo che i nostri desideri e le nostre aspirazioni verso tutto quello che è buono, che è vero, che è bello, sono radicati ed esauditi nella realtà trascendente di Dio.
Il culto “in spirito e verità” propugnato da Gesù, non è mai stato avvertito dalla Chiesa come una rinuncia alla forma esteriore di adorazione e di lode a Dio; si deve piuttosto intendere il cristianesimo come una religione in cui gli aspetti esteriori sono espressione della purezza del cuore e delle virtù.
 
1.3 Considerazioni teologico-antropologiche
San Tommaso d’Aquino è molto chiaro nell’osservare che dobbiamo rendere onore a Dio non solo in spirito. Poiché gli uomini sono creature corporee, i sensi sono sempre coinvolti. Poiché la mente umana conosce l’invisibile per mezzo del visibile, ne consegue che “nel culto divino è necessario usare le cose corporee, che la mente dell’uomo viene mossa dai segni a compiere quegli atti spirituali per mezzo dei quali si compie l’unione con Dio”.6
Non siamo “puri spiriti”, ma siamo fatti di anima e di corpo, è per questo motivo che abbiamo bisogno dei segni sensibili per purificare il nostro cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile. Comunque, S. Tommaso riconosce che il fine della liturgia è l’offerta spirituale compiuta da coloro che partecipano ad essa. Ma l’unione del corpo e dell’anima è tale che l’espressione interna dell’anima, se è genuina, cerca allo stesso tempo una manifestazione corporea esterna. La vita interna è sostenuta dagli atti esterni, atti liturgici. Il Doctor communis osserva: “Le cose esterne sono offerte a Dio, non come se aveste bisogno di esse … ma come segni delle opere interne e spirituali, che sono accettabili a Dio”.7 È alla volontà provvidenziale di Dio che dovremmo offrire i segni visibili della nostra offerta spirituale, perché è dai segni esterni che gli esseri umani, come creature corporee, comunicano.8
In questo senso, il decreto del Concilio di Trento sul sacrificio della S Messa, in un passaggio importante del suo primo capitolo, citato poi nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dichiara: “[Cristo] Dio e Signore nostro … nell’ultima Cena, la notte in cui fu tradito (1 Cor 11,23), [volle] lasciare alla Chiesa, sua amata Sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una volta per tutte sulla croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e (1 Cor 11,23), applicando la sua efficacia salvifica alla remissione dei nostri peccati quotidiani”.9
Ciò che interessa specificamente la nostra riflessione è la descrizione del sacrificio eucaristico come “visibile”, a cui il Concilio aggiunge la proposizione “come esige l’umana natura”. Nel quinto capitolo dello stesso decreto questa proposizione è così spiegata: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza accorgimenti esteriori, per questa ragione la Chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti … . Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molto altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui viene messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli vengono attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio”.10
L’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli non è una semplice cena; è necessario comprendere che si tratta della Cena in cui Cristo offre se stesso anticipando il suo sacrificio del Calvario e istituendo per noi il sacramento del suo corpo e del suo sangue. Per tale motivo occorre prestare attenzione a non banalizzare la celebrazione dell’Eucaristia. In tal senso anche l’arte sacra deve aiutare a far capire che si tratta del sacrificio di Dio fatto uomo, evitando che le cose attorno all’altare siano banali, come anche i canti e la musica
 
1.4 Insegnamenti del Magistero e testimonianza dei SantiNella sua ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, alla parte teologica, in cui è spiegato il fondamento teologico del Sacramento, fa seguire una parte liturgico-artistica in un capitolo intitolato “Decoro della celebrazione liturgica” (nn. 47-52), in cui vengono impartite indicazioni molto importanti per la relazione fra liturgia ed arte.
L’Enciclica afferma che Cristo stesso ha voluto il decoro: per questo si ricordano la preparazione della sala per l’ultima Cena (cf Marco 14, 15; Luca 22, 12) e l’Unzione di Betania (cf Matteo 26, 8 e paralleli), che anticipa l’istituzione dell’Eucarestia. In quest’ultimo episodio, una donna, identificata con Maria sorella di Lazzaro, unge il Signore con olio profumato preziosissimo. Di fronte all’obiezione scandalizzata di Giuda e nella quale non è difficile ravvisare molti atteggiamenti della demagogia dei nostri tempi “Si potrebbe con quei soldi aiutare tanti poveri”, Gesù osservò che mentre i poveri li avrebbero avuti sempre con sé non così Lui, mostrando di apprezzare molto quel gesto della donna, perché compiuto con amore nei confronti della Sua persona. È l’affermazione della bontà del decoro!
Altrove il Papa cita il passo di san Giovanni Crisostomo, in cui si afferma che il decoro non è lusso, e deve sempre essere rapportato ad una povertà essenziale: certamente non è giusto avere calici preziosi e innalzare colonne d’oro, se Cristo muore nel povero sulla strada. Tuttavia la Chiesa è sempre stata sia amante del decoro, sia operosa nella carità. È quanto mai eloquente rilevare come i grandi Santi della carità e della povertà evangelica si siano sempre distinti per l’amore allo splendore del culto divino. Questo fa riflettere, osservare ed anche trarre delle conseguenze. La Chiesa, si legge nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, “non ha temuto di ‘sprecare’, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia ”, di spendere denaro per la bellezza e il decoro. Lo scopo è lo “stupore adorante di fronte al dono incommensurabile”.11 Il decoro ha il fine di suscitare ammirazione per il mistero contenuto nel Sacramento dell’Altare.
Che sia un falso problema contrapporre il valore del spirito di povertà alla preziosità degli arredi lo mostra, tra gli altri, San Francesco, il “poverello” di Assisi, che sempre raccomandò ai suoi frati il massimo rispetto della parola e del corpo del Signore, da esprimersi anche con l’utilizzo di vasi preziosi. Raccomandava infatti nel suo Testamento (1226): “E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso”;12 mentre le sue biografie riportano che “essendo colmo di reverenza per questo venerando sacramento […] volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro”.13
Il decoro è ovviamente, innanzi tutto, un atteggiamento interiore, e l’arte rientra a pieno titolo in esso, perché nell’arte si esprime la percezione della Bellezza ed è al servizio del contenuto. Il decoro sacro è concepito per facilitare la preghiera e lo stupore per il mistero contenuto. Da questa stessa sorgente è nata la liturgia cristiana, che scaturisce dal convito e, quindi, da un clima di festa e di bellezza. Proprio dal desiderio di manifestare esternamente l’interiore atteggiamento di devozione, la Chiesa ha prodotto un ricchissimo patrimonio d’arte, che costituisce una testimonianza di fede in grado di parlare un linguaggio universale attraverso i tempi.
L’atteggiamento della Chiesa, di mettere a disposizione del culto quanto di più bello e prezioso è possibile produrre, al fine di preparare un ambiente degno dei grandi misteri che in esso vengono celebrati, trova preziosa conferma in Gesù stesso. Il Salvatore ha voluto che per l’Ultima Cena i discepoli andassero a preparare quanto occorreva nella casa di un amico che aveva una “sala grande e addobbata” (Luca 22,12). L’enciclica Ecclesia de Eucharistia commenta: “Non meno dei primi discepoli incaricati di predisporre la ‘grande sala’, essa si è sentita spinta lungo i secoli e nell’avvicendarsi delle culture a celebrare l’Eucaristia in un contesto degno di così grande mistero”.14
Pertanto, anche gli arredi, le suppellettili, i paramenti e gli stessi edifici sacri, pur essendo oggetti materiali, rientrano in tale visione spirituale del culto cristiano che, in virtù del mistero dell’Incarnazione di Cristo, non disprezza la materia, ma la considera luogo della manifestazione della gloria di Dio. Si comprende allora come san Giovanni Damasceno abbia giustificato la venerazione delle immagini e l’uso delle sacre suppellettili:
Ecco anche la materia diviene pregiata, essa che presso di voi è disprezzata. Che cosa è più volgare dei peli di capra e dei colori? O forse non sono colori il cremisi, la porpora ed il giacinto? Ed ecco anche le opere delle mani dell’uomo e le figure dei cherubini: ed inoltre, anche tutto il tabernacolo era un’immagine. Infatti, guarda – dice Dio a Mosé – ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. E tuttavia esso è venerato d’ogni intorno da tutto Israele. E che cosa dovrei dire dei cherubini? Non erano dinanzi allo sguardo del popolo? E l’arca, il candelabro, la tavola, l’urna d’oro e la verga, che il popolo guardava e venerava? Io non venero la materia, ma venero il Creatore della materia che per causa mia è diventato materia, ha preso dimora nella materia e attraverso la materia ha operato la mia salvezza”.15
Per fedeltà alla divina Rivelazione e alla perenne Traditio Ecclesiae, è certamente urgente porre fine a discorsi ed atteggiamenti demagogici, a forme varie di pauperismo e di intellettualismo o di archeologismo, per seguire piuttosto l’esempio dei Santi. È ora anche, nei confronti del Dio-con-noi, che è nel Santissimo Sacramento dell’altare, di lasciar parlare il cuore, di rispondere all’Amore con il linguaggio dell’amore. Allora – come è sempre accaduto – alla dignità del culto divino, alla devota maestà di tutto ciò che ne è l’espressione, conseguirà il fervore della carità verso il prossimo. La carità dimostra la verità del culto e la dignità del culto dimostra la verità della carità.
Per tale motivo la Chiesa, nelle varie disposizioni in materia di celebrazione e di culto eucaristico, non omette mai di raccomandare la preziosità dei vasi sacri destinati ad accogliere il corpo e il sangue del Signore durante la S. Messa (calice, patena, pisside) e durante l’adorazione eucaristica (ostensorio, teca). Recentemente la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti ha emanato una istruzione “su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la santissima Eucaristia” in cui, tra l’altro, ricorda che tali oggetti devono essere forgiati con materiali considerati nobili a seconda delle varie regioni e culture (pertanto l’oro o altri metalli preziosi, ma anche pietre dure, legni pregiati ecc.) ed evitati contenitori di uso comune o privi di qualsiasi valore artistico (come cestini, vasi di vetro, di argilla o di altro materiale fragile o poroso), e questo perché “con il loro uso si renda onore al Signore e si eviti completamente il rischio di sminuire agli occhi dei fedeli la dottrina della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche”.16 Questi non sono solo consigli, ma disposizioni da porre in pratica universalmente. Disposizioni molto, molto disattese. Non credo sarebbe pastoralmente utile produrre Istruzioni per spiegare o attuare l’Istruzione o e poi applicare il sistema diffuso del silenziatore.
 
2. Orientamenti pratici
Consideriamo ora tre aspetti del modo nel quale la liturgia incide sull’arte: immagini sacre, musica sacra e lingua sacra.
2.1 Immagine sacre
Il messaggio evangelico non è solo verbale, perché il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14). Le Sacre Scritture annunciano che il Cristo è “immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), “irradiazione della … gloria [del Padre] e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). Gesù stesso afferma “chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9): cioè, nel mistero della persona di Cristo rifulge in forma sensibile l’intera realtà divina, consegnando alla fede cristiana un insostituibile contenuto visivo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di Dio si è fatta “visibile” agli uomini, come risposta alle esigenze della natura umana. In una conferenza pronunciata nel 1981, l’allora cardinale Joseph Ratzinger diceva: “Per accostarsi al mistero di Dio l’uomo ha bisogno di vedere, di fermarsi a vedere, e di fare sì che tale vedere divenga un toccare. Egli deve salire la ‘scala’ del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita”.17 Il Verbo che si è fatto visibile diventò pertanto il volto o l’icona di Dio. L’importanza dell’arte sacra della tradizione liturgica e devozionale dei cristiani va colta proprio in questa prospettiva.
Il mistero del Verbo fatto carne fornisce la base e l’argomentazione del culto delle immagini. La rappresentazione di Dio – superando l’esplicito divieto dell’Antico Testamento (cf Es 20, 4 e Dt 5, 8 ) – nella Nuova Economia è resa possibile dall’Incarnazione del Figlio di Dio. Dio stesso ha fatto la sua immagine, Gesù Cristo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di Dio è diventata visibile agli uomini avviando l’ininterrotta serie di stagioni che hanno raccolto le opere dei più grandi artisti.
Eppure, nella storia della Chiesa, non sono mancate discussioni e polemiche su questo culto. Al periodo delle persecuzioni fece seguito il periodo della costruzione delle grandi basiliche e si accese la discussione sulle sacre immagini, poiché si paventava il rischio dell’idolatria. Non si può dimenticare al riguardo il Sinodo di Elvira (304) quando afferma: Picturas in ecclesia esse non debere, ne quod colitur et adoratur in parietibus depingatur. Ricordiamo anche la teologia anti-iconica di Eusebio di Cesarea nella sua lettera all’imperatrice Costanza. Questa lettera fu una delle testimonianze patristiche di ostilità alle immagini, che gli iconoclasti di Bisanzio, nell’ottavo secolo, usavano per appoggiare la propria lotta. Nella teologia di Eusebio, il grande storico della Chiesa, esiste veramente una connessione tra la sua opposizione all’icona di Cristo, il suo pensiero generale sull’immagine e la sua concezione molto spiritualistica dei sacramenti. Si nota che la questione delle immagini sacre è, in fondo, una questione teologica. Il fenomeno iconoclastico è presente in vari periodi della storia del cristianesimo; oltre a quello del movimento iconoclasta bizantino, risultato di molte e complesse cause, non dimentichiamo quello del calvinismo all’inizio dell’età moderna; anche il XX secolo ha conosciuto scuole di teologia sprezzanti nei confronti delle rappresentazioni figurative nell’arte sacra. In ogni caso, movimenti iconoclasti sono sempre sintomatici di una crisi di fede nel mistero dell’Incarnazione.
Tuttavia il sensus fidei dei cristiani, la riflessione teologica, il Magistero della Chiesa e gli esempi dei Santi sono sempre stati a favore dell’arte e dell’iconografia. I papi dell’VIII e IX secolo diedero il proprio appoggio al decreto del Concilio di Nicea II (787) che dichiarava legittimo il possesso e la venerazione delle immagini di Cristo, della Vergine, degli Angeli e dei Santi. Da san Gregorio Magno ai teologi scolastici (san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo Durando) si sviluppò un discorso di legittimazione che riconosceva alle immagini un triplice ruolo: mistagogico o memorialistico (esse ricordano), didattico (esse insegnano), affettivo (esse commuovono).
In primo luogo, le immagini mistagogiche sono capaci di presentare sinteticamente il mistero di Cristo (Incarnazione, Passione, Risurrezione, Parusia); la croce monumentale assolve a questo scopo, ma la tradizione iconografica ci presenta altri modelli (Ascensione, Pantocrator, Trasfigurazione ecc.); tali immagini sono adatte ad essere collocate sulla parete di fondo del presbiterio, per costituire un sacro fondale alla celebrazione eucaristica. A queste la tradizione ha affiancato immagini simboliche evocanti il sacrificio della S. Messa (come l’Agnello dell’Apocalisse).
In secondo luogo, sono importanti anche le immagini didascaliche, preferibilmente di soggetto biblico, organizzate in un programma iconografico pensato per trasmettere un contenuto catechetico di illustrazione della storia della salvezza. In questa categoria possono anche rientrare i programmi decorativi degli arredi sacri (altare, ambone, battistero ecc.), con episodi adatti, scelti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento sulla base, ad esempio, della lettura tipologica (o profezia).
La terza categoria è quella delle immagini devozionali, che comprende una tipologia molto variegata. Vi si trovano infatti le immagini di Cristo (Sacro Cuore, Crocifisso miracoloso ecc.), della Vergine e dei Santi, patroni della città o della chiesa o comunque venerati da quella comunità cristiana; oggetto di culto pubblico e di devozione privata, ci ricordano la comunione con la Chiesa celeste.
Mi sembra che sia ancora attuale quanto dice Pio XII nella Mediator Dei ove raccomanda di evitare “con saggio equilibrio l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra, tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana, piuttosto che del giudizio e del gusto personale degli artisti”(IV,2).
 
2.2 Musica sacraLa tradizione ecclesiale ha sempre affermato che il canto e la musica sacri, nell’offrire gloria a Dio nella solennità delle celebrazioni, favoriscono la preghiera e la partecipazione attiva ai santi misteri di quanti vi assistono, unendoli alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Nel santificare i fedeli e nell’educarne il gusto, il canto sacro rende anche esplicita la misteriosa unità del corpo mistico. Sant’Agostino descrive nelle sue Confessioni la viva commozione provata a Milano nel partecipare a celebrazioni in cui i fedeli eseguivano il canto dei salmi e degli inni di sant’Ambrogio.18 In un suo sermone lo stesso sant’Agostino dice: “L’uomo nuovo sa qual’è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia e, se pensiamo a ciò con un po’ più di attenzione, è espressione di amore”.19
Numerosi documenti pontifici e conciliari dell’ultimo secolo hanno richiamato alla celebrazione dei divini uffici solennemente e in canto, alla presenza attiva dei fedeli.20 Si deve però purtroppo osservare che, negli ultimi anni, forse sottovalutando l’apprendimento e il gusto estetico di un’assemblea che, fino a poco tempo prima, conosceva bene e a memoria melodie gregoriane, abitualmente siano invece proposti canti e canzoni, peraltro neppure coinvolgenti l’assemblea, spesso mancanti nella forma e nel contenuto. Da parte sua, peraltro, il Magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nell’esecuzione di un repertorio spesso anche complesso, ma ritiene che dal buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso”.21 Andrebbe anche chiarito cosa debba intendersi correttamente per partecipazione attiva: in sintesi, non si tratta semplicemente di prendere parte alla liturgia ma di avere coscienza di appartenere a Cristo, d’essere parte del Corpo ecclesiale di cui Cristo è il Capo.
Il canto gregoriano, intimamente unito alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, fa parte della lex orandi, che si è forgiata sull’arco di più di quindici secoli. Che l’assemblea dei fedeli, nella celebrazione della sacra liturgia, e specialmente nella Santa Messa, partecipi cantando in gregoriano le parti che le spettano, è non solo possibile, ma è anzitutto auspicabile. Non è una opinione personale, ma è il pensiero della Chiesa! Si veda a tal proposito l’ampia documentazione che va dal Motu proprio Tra le sollecitudini di San Pio X fino ai giorni nostri, passando attraverso Pio XII (Musicae sacrae disciplina), il cap. VI della Costituzione sulla Liturgia del Vaticano II, la successiva Istruzione dell’allora Congregazione dei Riti del 1967, e il chirografo di Giovanni Paolo II del 2003, commemorativo del centenario del Motu proprio Tra le sollecitudini.
Nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI afferma: “La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l’altro. A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l’introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto – nel testo, nella melodia, nell’esecuzione – deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana”.22
Il canto gregoriano assembleare non solo può ma deve essere ripristinato, accanto a quello della schola e dei celebranti, se si vuole il rispetto dell’insegnamento del Vaticano II, il ritorno alla serietà della liturgia, alla santità, alla bontà delle forme e all’universalità che devono caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, come insegna San Pio X e ribadiscono sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI. Credo si potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, dai canti dell’ordinario della S. Messa, specie il Kyrie, il Sanctus, l’Agnus Dei. In molti paesi il popolo conosceva bene il Credo III e l’intero ordinario della messa VIII (de Angelis), e non solo! Come sapeva pure il Pange lingua, il Veni Creator, la Salve Regina e altre antifone. L’esperienza insegna che il popolo, a seguito di un semplice invito, si mette a cantare anche la Missa brevis e altre melodie gregoriane facili, che ha nell’orecchio, anche se è la prima volta che le canta. C’è un repertorio minimo da imparare, contenuto nel famoso “Jubilate Deo” di Paolo VI, ma dove è finito?, o nel “Liber cantualis”, ma dove è finito? Se si abitua il popolo a cantare quel repertorio gregoriano che gli si confà, sarà allenato a imparare anche i canti nuovi nelle lingue vive; quei canti, si intende, degni di stare accanto al repertorio gregoriano, che dovrebbe conservare sempre il primato. La questione è che devono cadere i pregiudizi ideologici!
Senza il canto gregoriano la musica di chiesa è mutilata. Non può esserci musica di chiesa, nella Chiesa latina, senza canto gregoriano. I grandi maestri della polifonia sono ancora più grandi quando si basano sul canto gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmia. Per questo spirito che ne informa la raffinata tecnica, per questa fedele aderenza al testo sacro e al momento liturgico, sono stati grandi Palestrina, di Lasso, da Victoria, Guerrero, Morales, e via dicendo. E non solo nelle composizioni complesse o corali, ma anche nel creare nuove melodie, in latino o in volgare, sia per la liturgia che per gli atti devozionali. Il vero canto popolare sacro – peraltro preziosissimo – tanto più sarà valido e sostanzioso quanto più si ispirerà al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha fatto integralmente suo il noto principio di San Pio X: “Una composizione di chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nell’ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”.23
Il canto gregoriano riecheggerà suadente, e amalgamerà il popolo nel vero senso della cattolicità. E lo spirito del canto gregoriano informerà le composizioni di nuovo conio, e guiderà col vero sensus Ecclesiae gli sforzi di una retta inculturazione. Bisogna ricordare che questa musica era insolita anche alle orecchie di Carlo Magno o di san Tommaso d’Aquino, di Monteverdi o di Haydn. Ed era tanto estranea ai tempi loro quanto lo è ai nostri giorni. Oggi, tuttavia, si è meglio disposti verso la musica di altre culture di quanto non lo fossero i cristiani di molti secoli fa. Anzi, direi che le melodie delle varie tradizioni locali, anche di paesi lontani e di cultura ben diversa dalla nostra, sono parenti prossimi del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale, a tutti proponibile, e capace di fare da ponte, nel rispetto dell’unità e della pluralità. D’altronde sono proprio questi paesi lontani, queste culture che si sono affacciate di recente sull’orizzonte della Chiesa cattolica ad insegnarci l’amore per il canto tradizionale della Chiesa. L’educazione ecclesiale autentica va sempre nel senso della continuità e tale continuità è ben lungi dall’essere fissismo. Si cammina “in eodem sensu” e si cammina arricchendosi, non depauperandosi.
 
2.3 Lingua sacra
Non voglio chiudere queste riflessioni sugli aspetti liturgici che incidono sull’arte senza far notare una delle numerose brevi opere letterarie che la liturgia stessa contiene. Intendo le orazioni del rito romano, soprattutto quelle antiche della domenica. Il latino liturgico era un fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della Rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Dato che il latino del Canone Romano e delle orazioni della S. Messa era una lingua fortemente stilizzata e rimossa dall’idioma della gente comune, non si tratta semplicemente di un’adozione della lingua “vernacola” nella liturgia. La forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l’unica lingua liturgica dell’Occidente. Questo fu un fattore importante per favorire la sua coesione ecclesiastica, culturale e politica.
Queste composizioni hanno un valore artistico-letterario che è ben apprezzato anche dai filologi. Un autorevole dizionario tedesco di letteratura dice: “Gran parte delle orazioni … e dei prefazi è stata tramandata nei sacramentari del V e VII secolo. In tutti questi testi – soprattutto da una prospettiva strettamente letteraria – è presente la sostanza del Missale Romanum: creazioni di alta espressività teologica, modellate sulle regole della prosa letteraria della tarda latinità. Forme di una monumentale semplicità e di un’affascinante precisione. Esse, conservate essenzialmente immutate, sono di una tale perfezione da essere ancor oggi la forma di preghiera della Chiesa cattolica”.24
Le orazioni mantengono una classica generalità, perché esse sono la preghiera pubblica della Chiesa per tutta l’umanità, tuttavia hanno un contenuto che riesce a toccare anche il singolo lettore, perché in esse la Chiesa esprime la sua confidenza nella Grazia di Dio, che solo può aprire il cuore dell’uomo peccatore. Perciò, quelle orazioni succinte quanto sostanziose costituiscono una scuola di sensibilità sacramentale.
Quindi non sorprende che la Chiesa riaffermi il valore perenne della lingua latina nella liturgia. Come dice il Santo Padre nella sua recente Esortazione Apostolica Post-Sinodale: “Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia”.25 Solo che quanto il Santo Padre chiede dovrebbe subito diventare prassi. La “communio” deve essere effettiva non solo “applauditiva”. Già il Vaticano II chiedeva che tutti i fedeli sapessero rispondere anche in latino. È un “anche” e non un “solo”. Tutto si può fare con equilibrio e senza fanatismi di sorta e senza polemiche. Questo è lo stile ecclesiale. Ma cosa è successo della richiesta del Concilio?
In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune serve come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico, che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l’istruzione della Congregazione per il Culto Divino Liturgiam authenticam del 2001.26
 
3. Conclusione
Infine, vorrei sottolineare la necessità di formazione iniziale e permanente, innanzitutto del clero, a seguito di una serie di documenti del Magistero, dal Decreto del Concilio Vaticano II sulla formazione sacerdotale Optatam totius alla recente Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis del Santo Padre Benedetto XVI.27 Certamente il primo lavoro da fare riguarda la formazione dei candidati al sacerdozio, chiamati ad essere promotori delle arti sacre. Purtroppo sempre più diffusamente si constata una carenza quanto mai grave, di una vera educazione alla grande tradizione artistica della Chiesa, anzi talvolta della più elementare formazione musicale e il prosperare di banalità, di cattivo gusto, di rozzezza, di superficiali giovanilismi. Anche la formazione permanente del clero ad un’autentica comprensione ed utilizzazione dei beni culturali e artistici in senso ecclesiale è un’esigenza del nostro tempo. Naturalmente ogni cosa bella e buona ha un costo. Sebbene sia molto importante la buona volontà, a volte questa non basta. Per ottenere buoni risultati, è necessario investire delle risorse, soprattutto nella formazione, nella quale vanno impiegati veri professionisti, anche a tempo pieno. Dobbiamo ricordare che la formazione artistica e musicale del clero non è un lusso, ma fa parte dell’ars celebrandi. Così si serve anche alla santificazione del clero nell’esercizio stesso del sacro ministero.
La liturgia, con l’arte e la musica sacre, serve a far incontrare l’uomo con la bellezza della fede: “Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la Bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità…la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i santi, a entrare in contatto col Bello”(Joseph Ratzinger, Intervento al Meeting di Rimini 2002).
 

+ Mauro PiacenzaArcivescovo tit. di Vittoriana
Segretario della Congregazione per il Clero
1 Sacrosanctum Concilium, 122.
2 Gaudium et spes, 36.
3 Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, 35.
4 T. Verdon, Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica, Milano 2003, p. 13.
5 J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons VI, 19: ‘The Gospel Palaces’, San Francisco 1997, p. 1355: “The glory of the Gospel is not the abolition of rites, but their dissemination; not their absence, but their living and efficacious presence through the grace of Christ”.
6 S.Th. II-II, q. 81, a. 7
7 S.Th. II-II, q. 81, a. 7, ad 2.
8 Cfr III, q. 61, a. 1.
9 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1740; citato in CCC, 1366.
10 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1746.
11 Ecclesia de Eucharistia, 48.
12 Fonti Francescane, pp. 131-132.
13 Tommaso da Celano, Vita seconda, in Fonti Francescane, p. 713.
14 Ecclesia de Eucharistia, 48.
15 San Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre 2, 14: Es 25, 31-40.
16 Congregazione per il Culto Divino, Redemptionis Sacramentum, 24 aprile 2004, n. 117.
17 J. Ratzinger, Il Mistero pasquale. Contenuto e fondamento profondo della devozione al Sacro Cuore di Gesù, in Id., Guardare al Crocifisso. Fondazione teologica di una cristologia spirituale, Milano 1992, pp. 43-61, part. p. 49 (Conferenza al Congresso sul Sacro Cuore di Gesù, Toulouse, 24-28 luglio 1981).
18 Sant’Agostino, Confessioni IX, 7, 15-16.
19 Sant’Agostino, Sermo 34, 1.
20 Sacrosanctum Concilium, 113
21 Giovanni Paolo II, Chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003.
22 Sacramentum Caritatis, 42; Cfr. Sacrosanctum Concilium, 166; Ordinamento Generale del Messale Romano, 41.
23 Tra le Sollecitudini 3; Mosso dal vivo desiderio, 12.
24 Kindlers Literaturlexikon, vol. IV (1968), col. 2721.
25 Sacramentum Caritatis, 62.
26 Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Quinta Istruzione “per la retta Applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II” (Sacrosanctum Concilium, art. 36). Liturgiam authenticam: L’Uso delle Lingue Vernacole nella Pubblicazione dei Libri della Liturgia Romana, Città del Vaticano 2001.
27 Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 6; Codice di Diritto Canonico, can. 241, § 1 e can. 1029; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 342, § 1 e can. 758; Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992) 11.34.50; Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri Dives Ecclesiae (31 marzo 1994), 58; Sacramentum Caritatis, 21.

Mons. Mauro Piacenza

0 comentarios:

Publicar un comentario