domingo, 27 de noviembre de 2011

LA MUSICA NELLA LITURGIA

          Se ‘ritornasse’ S. Agostino ed entrasse in una delle nostre chiese per partecipare alla Messa domenicale, quali canti - e come eseguiti - sentirebbe? Chissà se ne rimarrebbe commosso, così da ripetere le parole che leggiamo nelle sue Confessioni: «Mi ricordo le lagrime che versai ascoltando i canti della tua Chiesa al principio della mia conversione, e osservo che anche adesso sono commosso non dal canto ma dalle cose che si cantano, quando sono cantate con voce chiara e adattissima modulazione: riconosco di nuovo la grande utilità del canto ecclesiastico» ((X 33).

Sappiamo che Agostino ravvisava (scrupolosamente?) un pericolo spirituale nella sua ‘commozione’: «Più tenacemente mi avevano legato e soggiogato le voluttà dell’udito; ma mi sciogliesti e mi liberasti. Adesso confesso di compiacermi un po’ nei suoni che animano la tua parola quando sono cantati con voce soave e con arte; non per restarvi legato, ma per levarmi di là a volontà. Tuttavia queste voluttà cercano di ottenere nel mio cuore un posto di qualche importanza…» (“Confessioni”, ib.). Sentimento e commozione, arte e preghiera, estetica e liturgia: che dire di questi ‘intrecci’, favorevoli o sfavorevoli al celebrare liturgico? Quasi a commento delle parole di S. Agostino, il liturgista C. Vagaggini, a metà del secolo scorso, scriveva: «È certo che l’equilibrio oggettivo e soggettivo in cui l’arte è veramente mezzo proficuo per l’elevazione a Dio è delicato a mantenersi. Non sempre infondate furono nella storia della Chiesa le ripetute reazioni degli spirituali contro l’invasione dell’arte nel santuario troppo accaparratrice dell’attenzione e lusingatrice  dei  sensi» (in “Il senso teologico della liturgia”, p. 58). Consapevoli tuttavia - con S. Agostino, insieme a tutti i liturgisti, i musicisti e gli animatori che hanno dato e danno vita alla liturgia - della «grande utilità del canto ecclesiastico», diciamone qualcosa in queste righe.



     Non rito senza musica

     È la storia a dircelo: dove nasce, si sviluppa e si attua un ‘rito’ lì c’è la musica, in forme più o meno elementari, più o meno solenni; si pensi alle manifestazioni pubbliche (durante i cortei) o agli eventi sportivi (negli stadi). Pensiamo soprattutto - con l’accezione religiosa della parola ‘rito’ - alle azioni liturgiche: nessuna nostra comunità cristiana ‘celebra’ senza almeno uno o due canti. L’arte di fare musica si accompagna all’arte di fare celebrazione.

   Canto e musica in genere favoriscono l’unità nel celebrare: ‘dicendo’ in musica o ‘ascoltando’ musica insieme ci si sente più uniti, si costruisce comunione; non è chi non veda quanto ciò sia in linea con l’essere il “Popolo di Dio”, la “Gente santa” che va incontro al suo Signore e lo accoglie.

   Canto e musica evidenziano la festa: la liturgia in terra non può non essere festosa, preludio e anticipo della Festa del cielo. Il fare musica e specialmente il cantare insieme sono di loro natura ‘emozionanti’: suscitano emozioni, conducono dall’intelligenza al cuore; ciò che non può non avvenire nel celebrare le Meraviglie di Dio, abbondantemente già manifeste sulla terra. L’arte dei suoni deve risvegliare quello ‘stupore’, che pare assente da certe celebrazioni almeno esteriormente ‘asettiche’ anche per la loro povertà nell’‘habitus’ musicale. Superfluo, di certo, è il richiamare quanto è stato sottolineato con altre parole: la ‘festa’ non coincide necessariamente con l’abbondanza o la sontuosità (o lo spreco), come insegna spesso in negativo l’esperienza - per esempio - della convivialità sociale. Il ‘poco ma buono’ e il ‘semplice ma bene’ valgono anche per la festa liturgica, che non deve fare a meno della sobrietà. Mai dimenticando, peraltro, che il cristiano fa germogliare la gioia dal cuore e sa coniugare acclamazione e silenzio nell’adorare Dio.

    Canto e musica sostengono la ritmicità: hanno cioè la capacità di mettere in movimento ordinatamente tutto l’uomo, anima e corpo, nell’incontro con il Signore e nella comunione con la Chiesa. Occorre ripetere con insistenza che nella liturgia il gesto umano è atteggiamento sia dell’anima che del corpo, l’una e l’altro protesi a Dio. Fare musica, vocale e strumentale, coinvolge in pienezza le persone col ritmo, componente essenziale dell’espressione musicale. «Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum» - «Il mio cuore e la mia carne [il mio corpo] hanno esultato nel Dio vivente!»: assai realistica è questa antifona liturgica nell’esprimere l’esultanza - la festa - che prende tutto l’essere umano nella sua integrità fisica-spirituale.



     Non musica senza pertinenza

     La musica nella liturgia deve essere collocata al posto, al momento e al modo giusto. Chiaro, e perfino minuzioso, è il testo della istruzione “Musicam sacram” del 5 marzo 1967, là dove descrive la «vera solennità» di una celebrazione: «Si tenga presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più fastoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura» (n. 11). Queste parole fanno ampia eco a quelle concise (e polemicamente discusse) della costituzione “Sacrosanctum Concilium”: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più sarà in stretta connessione con l’azione liturgica» (n. 112). Dopo quasi mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, non è fuori luogo domandarsi e verificare se i nostri canti e le nostre musiche nella liturgia sono in stretta connessione con le azioni sacre in cui via via si introducono.

   L’integrità dell’azione liturgica

     “L’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura”, è ciò che viene richiesto agli uomini e alle cose impegnati a celebrare il Signore: è quanto costituisce l’autenticità di ogni celebrazione; ed è quanto si esige, non senza rigore, dalle musiche, dai musicisti (esecutori e compositori), dagli animatori musicali e ‘in primis’ dai responsabili delle comunità cristiane nel loro compito di presidenti delle assemblee e di ‘registi’ della preghiera della Chiesa. Il rischio - non mai da sottovalutare - è sempre quello di ‘uscire dalle righe’ o di metter troppo e di sbagliato, di andare ‘a briglie sciolte’ (non «in stretta connessione» con la celebrazione liturgica). Anche l’abitudine, la ripetitività o la mole stessa delle celebrazioni possono indurre a ‘fare di propria testa’, secondo i propri gusti e non secondo le regole: non secondo quella pertinenza liturgica che deve essere l’anima rituale di tutte le azioni sacre. Essere ‘pertinenti’ nel celebrare richiede il distacco da scelte suggerite soltanto da vedute proprie eccessivamente rigide e da una propria formazione culturale che inclinasse all’arbitrarietà o all’estetismo. Significative a tale riguardo ci sembrano le parole – cronologicamente lontane dal Vaticano II - di S. Giovanni della Croce, in una critica che muoveva ai cristiani del suo tempo, più preoccupati delle “rubriche” che dell’interiorità: «Voglio solo parlare delle cerimonie che (…) vengono praticate oggi con devozione indiscreta da molte persone, le quali ripongono tanta efficacia e hanno tanta fiducia nel modo con cui sono solite compiere le loro orazioni e devozioni da credere che, mancando o allontanandosi di un solo punto da quei limiti, esse non otterranno frutto né saranno ascoltate dal Signore, confidando di più in quella esteriorità che nel vivo dell’orazione, non senza grande irriverenza e offesa di Dio. Così, per esempio essi vogliono che durante la Messa sia acceso un determinato numero di candele, né più né meno (…). Essi pensano che, se manca qualcosa di quanto si sono proposti, manchi ogni efficacia. (…) Sappiano costoro che quanto maggior fiducia essi hanno in queste cose e cerimonie, tanto meno ne hanno in Dio…» (“Salita del monte Carmelo”, III, 43-44).      

   La funzionalità nella celebrazione

     “Funzionalità liturgica” è un’espressione che dall’inizio della riforma conciliare è andata molto soggetta al fraintendimento: per essa hanno ‘bisticciato’, contrapponendosi, musicisti e liturgisti, con ragione e torto (come sempre) da ambo le parti. «Canto e musica, belli o brutti, siano messi al posto giusto» - hanno detto alcuni liturgisti. «Canto o musica, purché siano belli e non brutti, basta eseguirli bene durante la liturgia, all’ingresso o alla comunione o altrove» - hanno fatto intendere certi musicisti. Grazie a Dio, né tutti i liturgisti né tutti i musicisti si sono agguerritamente schierati da una parte o dall’altra; perlopiù, si tratta di capirsi (come sempre) nel sostenere le proprie convinzioni, badando che quelli dell’‘altra parte’ hanno qualche buona ragione che va accolta e su cui è bene riflettere.

     Dire funzionalità musicale nella celebrazione è ricordare che anche il ‘segno’ del canto e della musica in generale deve rispettare una specie di “catena liturgica”, i cui tre anelli non vanno mai disgiunti: la forma, la funzione e il funzionamento.

     Per forma si intende il tipo di struttura dei canti nelle e per le celebrazioni liturgiche. C’è la forma letteraria-musicale dell’inno, del corale, del salmo, dell’acclamazione, della litania, ecc.: l’una o l’altra ha le proprie caratteristiche e varianti. L’inno è testualmente esteso e musicalmente variato; l’acclamazione è per lo più  breve nel testo e concisa nell’espressione musicale; il corale è strofico; la litania si distingue per la sua ripetitività, ecc. Sfogliando un repertorio (ben fatto), si constata la varietà delle forme usate e proposte: si veda, per esempio, “Canti per la liturgia” – Repertorio Nazionale (CEI-Elledici). L’una o l’altra forma va impiegata rigorosamente o liberamente a secondo della funzione esigita dal rito o del momento rituale.

     Per funzione si intende, appunto, la destinazione liturgica per la quale il canto è stato composto o lo si può utilizzare. Ecco subito un esempio (negativo) chiarificante: il coro ha imparato un bel corale natalizio o pasquale e vorrebbe eseguirlo, senza la partecipazione dell’assemblea, al posto del salmo responsoriale. Si verrebbe meno alla funzionalità liturgica: come ‘salmo responsoriale’ si richiede un salmo o un cantico biblico, con la partecipazione almeno responsoriale di tutti i fedeli; non comunque un canto qualsiasi. Lo stesso dicasi di un “alleluia” eccessivamente innico, prolungato all’eccesso e magari eseguito in maniera ‘soporifera’ (di questo diremo anche dopo). Se si considera che nella Messa, ad esempio, sono una ventina i testi che si possono eseguire in canto o i momenti rituali nei quali è possibile introdurre della musica cantata o suonata, si comprende quante ‘funzioni’ varie richiedano ‘forme’ varie: nelle scelte, i musicisti, gli animatori, i celebranti devono sempre lasciarsi guidare da una creativa sapienza liturgica e da una duttile scienza musicale. La legge dell’‘ogni cosa al suo posto’ vale anche per la liturgia, che al canto ‘tale’ o al pezzo strumentale ‘talaltro’ aprirà le porte e lo ammetterà nella celebrazione se la funzione rituale sarà rispettata. Così: attingendo dal Repertorio Nazionale, bene a «O Signore, raccogli i tuoi figli» (n. 369) alla presentazione dei doni; o «Pane di vita nuova» (n. 37) alla comunione; ma lo stesso canto potrebbe venir eseguito alla presentazione dei doni scegliendo la strofa VII; oppure «Nostra gloria è la Croce» (n. 116) in una celebrazione pasquale, ma anche durante una Messa quaresimale, evidenziando il mistero della Passione. L’ottimo avverrebbe se lo stesso presidente dell’assemblea sapesse, egli stesso, ‘motivare’ un canto indicandone la sua destinazione, per esempio, col rilevarne il senso e il significato mediante una monizione o nell’omelia stessa. La musica nella liturgia non è un sopramobile da ornamento o un oggetto di lusso da spettacolo per determinate circostanze, purché ci sia o benché non ci sia: davvero ne sono tutti convinti, in pensieri, in parole, in opere e… in omissioni? La convinzione condurrà all’attenzione: si tratterà sempre, prima del che cosa fare in musica nella liturgia, del come celebrare attentamente la musica nella liturgia. Ci sovviene l’osservazione del S. Curato d’Ars, il quale, parlando di un certo «rilassamento» (del clero) diceva: «È che non si dice più con attenzione la Messa». Attenti, dunque, anche ai tre anelli della catena!



     S. Ambrogio - «il più musicale fra tutti i Padri della Chiesa», che «raccomanda insistentemente di cantare» (E.T. Moneta Caglio) - dopo aver parlato a lungo e fatto l’elogio del mare nell’opera “I sei giorni della creazione”, così si esprime in una solenne immagine: «Che altro è il canto delle onde se non una specie di canto del popolo? Perciò opportunamente spesso si paragona al mare la Chiesa quando il popolo entra in folla: dapprima ne riversa le ondate da tutti gli ingressi, poi, mentre i fedeli pregano in coro, scroscia come per il rifluire dei flutti, allorché il canto degli uomini, delle donne, dei fanciulli, a guisa di risonante fragore d’onda, fa eco nei responsori dei salmi». Solo ridondante poesia, o utopia che ci fa sognare? Sicuramente lo spirito ‘ambrosiano’ ci incoraggia a prendere sempre il largo, verso un meglio anche quanto a musica e liturgia.


Don Giancarlo Boretti  

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